A ISRAELE NON BASTERA’ CACCIARE NETANYAHU Critica Sociale giugno 2025

25.06.2025 10:00

Su Gaza dobbiamo prendere la parola in prima persona. Anche perché a noi, cittadini di Stati alleati con Israele, verrà chiesto conto di Gaza. E della sua morte: è quello che sta accadendo, il tempo che rimane è pochissimo.

E’ in corso di attuazione un genocidio.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che l’effetto combinato di tutte le azioni israeliane nella Striscia minaccia l’esistenza dei palestinesi “in quanto gruppo”. È uno degli atti di genocidio stabiliti dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Onu nel 1948.

A ciò si aggiunge l’accusa di dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che, ha dichiarato la portavoce Ravina Shamdasani, “costituisce un crimine di guerra”.

I bombardamenti continui e il blocco degli aiuti umanitari privano la popolazione del cibo, dell’acqua, dei medicinali, dell’elettricità. Ci sono la “crisi di sete” e la “crisi di fame”.

Medici senza Frontiere ha denunciato che la mancanza di acqua e igiene sta causando focolai di poliomielite e scabbia. La ong ha dichiarato di assistere a una “morte lenta”: la fame provoca perdita di peso e problemi medici che la sanità annientata non è in grado di gestire. Anche la Croce Rossa ha fatto sapere che il suo ospedale da campo sta esaurendo le forniture, descrivendo la situazione nella Striscia come “l’inferno in terra”.

Dall’ottobre 2023 più di 16 mila bambini sono stati uccisi, quasi 40 mila bambini sono stati feriti.

I gazawi non stanno morendo in segreto, ma davanti agli occhi di tutto il mondo.

L’obiettivo del governo israeliano – e di quello americano, per quanto Trump sia imprevedibile – è occupare la Striscia e suddividerla, creare alcuni centri di aggregazione per il cibo, esautorare del tutto le Nazioni Unite e affidarsi ai contractor privati, magari con l’ausilio di qualche gang locale, come si è cominciato a fare. I palestinesi sopravvissuti vivranno ammassati in piccoli campi di concentramento. Certamente Israele lavora anche per far sì che molti palestinesi siano costretti ad andarsene: ma questo non accadrà, e non solo perché due milioni di gazawi sono troppi e nessun Paese li vuole. Israele sottovaluta la tenacia e la dignità morale dei palestinesi, il loro amore viscerale per la Terra Madre. A Gaza ci sono gli eredi di coloro che furono espulsi dall’attuale Cisgiordania nel 1948, con la “nakba” (catastrofe): hanno ancora le chiavi delle loro case di 77 anni fa, che ormai non ci sono più. Nessun progetto coloniale può far dimenticare la propria Terra Madre.

La Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto plausibile il genocidio e ha emesso più volte delle misure a carico di Israele volte a prevenire o a impedire il genocidio. Il problema che il genocidio pone alla coscienza dell’umanità non è di riconoscerlo o di punirlo, ma di prevenirlo e di impedire che si compia. I Paesi occidentali amici o alleati di Israele, anche se respingono l’accusa di genocidio, hanno ora, in ogni caso, l’obbligo giuridico, non solo morale, di prevenirlo e di impedirlo. Più stretti sono i rapporti con lo Stato che si accinge a perpetrare un genocidio, più grande è la responsabilità nel fare tutto il possibile per fermarlo. Il silenzio è complicità.

Nel 2007, sulla base di queste argomentazioni, la Corte Internazionale di Giustizia condannò Serbia e Montenegro per la mancata prevenzione del genocidio di Srebrenica.

La situazione è molto grave anche in Cisgiordania. A Jenin, a Hebron, a Tulkarem l’esercito israeliano è intervenuto in modo violentissimo. Nella “Città Vecchia” di Gerusalemme Est, la parte palestinese, i coloni ridono e ballano nelle strade offendendo i residenti. Durante la “Marcia delle bandiere”, che ogni anno celebra l'annessione della zona Est della città, quando Israele vinse la guerra del 1967, ogni anno la tensione è fortissima. Questa volta è andata peggio del solito: bande di giovani ebrei ortodossi e nazionalisti hanno marciato nel cuore della zona musulmana aggredendo gli arabi, costretti a nascondersi. “Un giorno importante per noi sionisti” – hanno detto – “vogliamo la sovranità completa su tutto il territorio e non ci importa dei morti palestinesi”. Una frase che dimostra come la lunga notte coloniale abbia portato a non riconoscere i palestinesi come esserei umani.

L’attenzione sulla Cisgiordania si è inevitabilmente ridotta, di fronte a Gaza. Ma l’offensiva dei coloni è senza precedenti. Anche qui si punta a restringere sempre più le aree abitate dai palestinesi – contadini e pastori – e dai beduini e si realizzano a tal fine sempre nuovi avamposti.

I racconti di questi poveri contadini e pastori che si preoccupano della famiglia e insieme delle pecore e degli animali – la fonte della loro vita – quando i coloni bruciano le stalle, fanno venire in mente il terrore dei contadini italiani di fronte alle razzie naziste e fasciste del 1943-1945.

Oramai non c’è più tempo.

Il 20 maggio scorso Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, ha dichiarato: “A Gaza la situazione è catastrofica. Una forte maggioranza vuole la revisione dell’accordo di associazione con Israele”. Ma non è accaduto nulla. Nessuno fa sul serio, tranne il governo spagnolo.

L’Italia è tra chi fa peggio. Il nostro governo non condanna Netanyahu, non vuole riconoscere lo Stato di Palestina, è contrario alla revisione dell’accordo di cui ha parlato la Kallas. Non solo: non denuncia il Memorandum d’intesa fra il governo italiano e quello di Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa. Continuiamo a fornire armamenti a Israele: sono aerei di addestramento, che non vanno a bombardare, ma pur sempre armi sono. Così come continuiamo a comprare armi da Israele, finanziando indirettamente la sua guerra.

Ma è tutta l’Europa che, drammaticamente, non è all’altezza. Proprio quando salvare Gaza significherebbe anche salvare l’Europa. Perché a Gaza sta morendo anche la moralità dell’Europa. L’Unione europea ha promosso con forza la giustizia internazionale in Ucraina, ma non difende la legalità quando è minacciata da Israele. Questo doppio binario, hanno scritto Alessandra Annoni, Micaela Frulli e Triestino Mariniello, “discrimina anzitutto le vittime […], mina alla base credibilità, legittimità ed efficacia del diritto internazionale e rischia di erodere l’architettura giuridica internazionale costruita faticosamente dopo il 1945”. Senza giustizia internazionale resta solo la legge della giungla. E prende corpo il disgusto del Sud globale verso l’Occidente, considerato immorale.

Come stanno le cose lo ha detto con chiarezza il 24 aprile scorso – anche se avrebbe dovuto dirle prima – il predecessore della Kallas, Josep Borrell:

“Contrariamente a quanto spesso si dice, e nonostante la totale mancanza di empatia di alcuni dei suoi leader, l'Ue dispone di numerosi strumenti di azione nei confronti del governo israeliano: siamo il suo primo partner in termini di commercio, investimenti e scambi di persone. Forniamo almeno un terzo delle armi importate da Israele e abbiamo concluso con questo paese l'accordo di associazione più ampio in assoluto. Tuttavia, come gli altri, anche questo accordo è subordinato al rispetto del diritto internazionale, in particolare del diritto umanitario. Se lo vogliamo, possiamo agire. E abbiamo già aspettato troppo”.

Nessuno agisce veramente. Di certo non lo fanno gli Stati Uniti. Eppure Trump, intrecciando politica e affari, sta ridisegnando il Medio Oriente con gli Stati arabi moderati, guidati dall’Arabia Saudita, e con la stessa Turchia. Ha riconosciuto il nuovo regime siriano, che Israele considera un nemico, garantendogli legittimità internazionale; ha raggiunto un’intesa con gli Houthi per porre fine agli attacchi alle navi americane nel Mar Rosso; soprattutto sta trattando con l’Iran, il nemico storico di Israele, e sta impedendo a Netanyahu di attaccarlo. Ma, almeno finora, in questo ridisegno Trump continua a lasciare carta bianca o quasi a Israele in Palestina.

Infine: la tragedia in atto chiama a una riflessione profonda la stessa Palestina, dove è sempre più chiaro che occorre una nuova strategia anticolonialista, e soprattutto Israele.

La vita dei palestinesi è cinicamente messa in gioco da Hamas. Nel momento in cui denunciamo il genocidio di Israele, non dobbiamo dimenticarlo.

Nelle macerie delle loro città e delle loro case, i gazawi non vedono le decantate vittorie di Hamas, ma l’insensata distruzione della loro esistenza sociale. Quello che chiedono è il cessate il fuoco, ogni possibile politica di emergenza urgentemente fondata sui loro bisogni di sopravvivenza. La stragrande maggioranza dei palestinesi vuole una resistenza con forme di lotta pacifica. Qualcuno dirà: ma senza armi come si combattono i “cattivi”? Con la ricerca della pace, del dialogo anche tra nemici, della riconciliazione tra i popoli. Come ci ha insegnato Nelson Mandela. Come ha deciso di fare il Pkk, il partito dell’indipendentismo curdo.

Le speranze stanno nei popoli: di tutto il mondo, di Palestina e Israele in particolare.

Sull’orlo dell’annientamento e dell’espulsione, solo l’azione collettiva e la solidarietà possono guarire la società palestinese e permettere di reagire alla nuova “nakba”.

E’ una sfida difficile, ma il popolo palestinese, alla ricerca di una nuova strategia di emancipazione e di liberazione in grado di salvaguardare il suo futuro in patria, che prenda le distanze dall’esaurimento della

politica delle attuali classi dirigenti, sia a Gaza che in Cisgiordania, ha le risorse morali e politiche per farcela.

Tuttavia la questione chiave oggi non è la resa dei conti politica e storica che è necessaria in Palestina.

La questione chiave è, in tutta evidenza, se è possibile un altro Israele, contro il genocidio e l’occupazione.

Quando, nel 2019-2020, si sviluppò la protesta contro la corruzione di Netanyahu, l’occupazione della Palestina non era considerata degna di contestazione. Dopo il 7 ottobre, chi ha combattuto Netanyahu in nome della liberazione degli ostaggi era in gran parte favorevole alla guerra. Ora sta avanzando una critica alla politica militare del governo in nome della sicurezza.

Tamir Hayman, direttore del centro Israeliano Institute for National Security Studies, orientato a destra, ha sottolineato il paradosso di Gaza: “Ciò che guadagniamo in risultati militari, lo perdiamo in sicurezza nazionale”. A suo parere sostituire Hamas con l’occupazione potrebbe condurre alla sua perpetuazione nel momento in cui Israele vede la sua economia in caduta libera, la sua immagine internazionale peggiorare e la sua resilienza interna logorarsi. Ha concluso: “Un’amministrazione militare è una buona soluzione militare, ma Gaza non è soltanto una questione militare”.

Cessare il fuoco, fermare il genocidio: questo deve essere il primo, fondamentale, passo. E cacciare Netanyahu. Ma poi Israele deve affrontare di petto il punto di fondo: l’occupazione, la decolonizzazione. Cresce il numero di coloro che parlano di “crimini di guerra”: per esempio l’ex primo ministro Olmert. Forse qualcosa sta sorgendo nella coscienza collettiva israeliana.

A inizio giugno gli attivisti di “Standing together” si sono diretti verso la recinzione della Striscia, in attesa di poter consegnare gli aiuti: ”Protestiamo contro l’annientamento di Gaza, siamo qui contro la fame”. Erano alcune migliaia.

Come ha scritto lo storico Franco Cardini:

“Ascolta, Israele. Noi ti amiamo tutti davvero, noialtri uomini e donne di buona volontà: rispettiamo la tua sofferenza millenaria, facciamo nostra la memoria sacrosanta della Shoah. Non permettere che questa tua eredità sublime venga profanata da un mostro che bestemmia quando afferma a tua volta di amarti. Basta col martirio di Gaza. Basta con i morti innocenti. Riprendi il tuo cammino: combatti, lavora, resta degna di te stessa. Liberati dai fantasmi sanguinari che sono obiettivamente i peggiori antisemiti. Liberati dal tuo nemico che marcia ancora alla tua testa”.

Dentro Israele ci sono le risorse morali e politiche per combattere il “mostro” interno? Lo speriamo.

Sono sempre i governi a iniziare le guerre, sono sempre i popoli a fermarle. Tocca a tutti noi. Ma in primo luogo al popolo israeliano.

 

Giorgio Pagano

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