Nel Sud del mondo le megalopoli continuano a crescere, ma questa crisi ne ha mostrato la fragilità. Nei Paesi ricchi i benestanti che lavorano online le abbandonano. In entrambi i casi vanno ripensate. Ma l’Italia è bloccata.
di Donato Speroni
I demografi lo dicono da tempo e noi lo abbiamo ripetuto come un mantra nelle nostre conferenze: già oggi metà della popolazione mondiale vive negli agglomerati urbani, che entro il 2050 ospiteranno tre quarti dell’umanità. Da qui la convinzione che una parte importante della sfida dello sviluppo sostenibile si gioca nelle città, come indica il Goal 11 dell’Agenda 2030 dell’Onu.
Cinquant’anni fa le megalopoli con oltre dieci milioni di abitanti erano solo tre: New York, Shangai e Tokio. Oggi secondo Wikipedia sono 41 e il numero è destinato a crescere. In Europa ci sono solo Londra, Parigi e Mosca, negli Stati Uniti a New York si è aggiunta Los Angeles, mentre in Giappone a Tokio si sono aggiunte Nagoya e Osaka. E tra quelle dei Paesi sviluppati si può annoverare Seul. Tutte le altre 25 sono collocate in Paesi considerati “emergenti” o “in via di sviluppo”.
Che cosa spinge le masse rurali a spostarsi, magari per andare a vivere in infime baraccopoli? Quindici anni fa, svolgendo una missione per conto della Banca mondiale presso il National bureau of statistics della Tanzania, lo chiesi a un collaboratore che viveva nei sobborghi di Dar es Salaam. “L’elettricità”, mi rispose. “La possibilità di bersi una birra fresca o di guardare la televisione”. In realtà, ci sono anche ragioni sociali più profonde: la crescita della popolazione che non può vivere tutta sull’agricoltura, l’inaridimento delle terre, la mancanza di adeguati presidi sanitari, nei villaggi africani come in quelli dell’Asia o dell’America latina.
Da qui l’importanza degli interventi per migliorare la qualità della vita nelle zone rurali, ma senza dubbio le città sono ormai considerate la way of living del futuro. L’economista di Harvard Edward Glaeser, grande esperto di urban economics, ha definito le città “la nostra più grande invenzione, che ci rende più ricchi, più intelligenti, più sani e più felici”. Ha teorizzato le città iperconcentrate, dove la gente vive in grattacieli che riducono il consumo di suolo, razionalizzano il fabbisogno di energia, minimizzano gli spostamenti. C’è però un problema, che sta venendo alla luce in questa crisi da Coronavirus e che del resto era stato anticipato in tanti libri di fantascienza: le città sono meccanismi delicati, dove la qualità del vivere dipende dal perfetto funzionamento di un sistema che deve garantire approvvigionamenti, energia, sicurezza e lavoro per pagare il tutto. [continua a leggere]
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