Non basta lottare contro la fame, bisogna garantire un’alimentazione adeguata alla popolazione mondiale in crescita. Gli acquisti possono diventare uno strumento di pressione verso un mondo politico ancora distratto.
di Donato Speroni
Gli africani hanno fame. Non soltanto chi chiede interventi per raggiungere l’Obiettivo 2 dell’Agenda 2030 che si prefigge appunto di sconfiggere la fame, ma anche tutti gli altri. Fame in senso metaforico, come denuncia la rassegna quotidiana dell’Economist, sotto il titolo “Hungry for change: food safety”. Hanno fame di sicurezza nell’alimentazione. Ogni anno nel mondo più di 600 milioni di persone si ammalano e 420mila muoiono per aver mangiato cibo contaminato da batteri, virus, parassiti, tossine e prodotti chimici nocivi. L’Africa, con 91 milioni di casi e 137mila morti, subisce l’impatto peggiore. Dice l’Economist Espresso:
Mercoledì 13 ad Addis Abeba alcuni soggetti, compresa l’Organizzaziome mondiale della sanità e l’Unione africana, hanno organizzato la prima International food safety conference per affrontare problemi collegati alla gestione, cottura e immagazzinamento del cibo. Un rapporto recente della Global food safety partnership (una piattaforma sostenuta alla Banca mondiale) ha studiato 500 progetti nell’Africa subsahariana, legati all’alimentazione e operativi dal 2010. Ha scoperto che gran parte degli investimenti erano orientati ai mercati di esportazione, senza considerare la vulnerabilità dei consumatori domestici. Molti africani ancora dipendono da mercati locali senza regole e senza protezioni sanitarie adeguate.
Nel 2030 la popolazione mondiale sarà di 8,5 miliardi, circa, un miliardo in più di oggi, e supererà i nove miliardi nel 2050. Come garantire cibo “decente” (oltre a un lavoro “decente”, come raccomanda l’Ilo) a una popolazione in costante crescita? Questo è un aspetto cruciale dell’Agenda 2030, che abbraccia problemi ben al di là dello specifico Obiettivo 2. [continua a leggere]
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