Dalle migliaia di minori che le famiglie africane spingono a emigrare, ai confronti di Sharm el-sheikh sui finanziamenti climatici, il Sud del mondo cerca una prospettiva sostenibile. E noi non gliela stiamo dando.
di Donato Speroni
È accaduto ancora: tra i naufraghi sbarcati a Catania per insopprimibili ragioni umanitarie, erano numerosi i minori non accompagnati. E molti di loro provenivano dal Gambia. In quel Paese, dove capitai nel 1965, nel corso di un giro in Africa occidentale come giornalista free lance, lasciai un pezzo di cuore. Banjul, la capitale, che all’epoca si chiamava Bathurst, aveva 12mila abitanti ed era un borgo tranquillo sulle rive del fiume che dà il nome al Paese. Il turismo sulle sue spiagge dorate non era ancora esploso. Il mio arrivo fece notizia (!) e il ministro dell’educazione veniva in albergo a giocare a scacchi con me. Conobbi l’uomo più ricco dello Stato, un libanese, che mi mostrò la sua bellissima Mercedes, per poi commentare “Sì, ma che me ne faccio, in un Paese con solo un chilometro di strada asfaltata?”. Viaggiai anche all’interno e andai a trovare il governatore di una provincia lontana, unico civil servant inglese rimasto, perché proprio in quelle settimane era in corso la transizione amministrativa dal controllo britannico all’indipendenza. Due soli bianchi nel raggio di molti chilometri: non fu un incontro emozionante come quello tra il dottor Livingstone e mister Stanley, ma fu stimolante. Di fronte all’immancabile tazza di tè ci scambiammo le nostre impressioni: entrambi credevamo nel futuro di quella nazione, non ricca ma nel complesso felice.
Come è possibile che da quella sottile striscia di terra lungo il fiume Gambia, che taglia in due il Senegal e raccoglie poco più di due milioni di abitanti, provenga ora il maggior numero di minori non accompagnati che tentano la fortuna per raggiungere l’Europa? Che cosa induce i giovani a fuggire?
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