Aumenta la percezione dei rischi, ma si diffonde anche il dubbio che i governi non siano in grado di dire la verità agli elettori. La democrazia deliberativa potrebbe essere una soluzione da sperimentare.
di Donato Speroni
Oggi, nel mondo, e in particolare in Europa, sta crescendo la consapevolezza che, in assenza di azioni drastiche per la difesa dell'ambiente, si andrà verso una catastrofe climatica. Questo sta producendo nuove politiche e nuove regole oltre ad influenzare l'orientamento di chi investe.
Così scrive Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera di domenica 16. Avverte anche che
il green deal europeo è una missione che definisce una nuova identità dell’Unione e afferma la leadership globale dell’Europa sulle politiche ambientali. Ma definire una missione non significa necessariamente portare a casa risultati. Il pericolo che, come per l’unione monetaria, interessi diversi non siano ricomposti, ma che, al contrario, le divisioni tra Paesi e gruppi sociali si approfondiscano, è tangibile. Dopo tante promesse, il fallimento, oltre a essere tragico per il futuro dell’umanità, potrebbe anche essere la tomba dell’Unione. Come al solito la responsabilità di evitarlo ricade non solo su Bruxelles ma su tutte le capitali europee, inclusa – ovviamente – Roma.
La domanda che dobbiamo porci è se governi europei così traballanti (ci riferiamo non solo all’Italia, ma anche a Francia, Germania, Spagna per citare solo i Paesi maggiori) sono in grado di varare politiche incisive. È utile, per questo, guardare ai segnali di scetticismo che vengono lanciati e che potrebbero frenare le politiche sulla crisi climatica. Questa settimana il presidente francese Emmanuel Macron è andato sul Monte Bianco a fare un discorso ambientalista, ma ecco la risposta del deputato dei républicains Julien Aubert sul conservatore Le Figaro (tradotto dalla rassegna stampa del Corriere):
Bisogna senz’altro modificare i nostri comportamenti, ma non potremo farlo senza le persone. Quando ci si parla di neutralità carbonica, bisogna capire cosa implica: la divisione per 7 delle emissioni di CO2, ossia la fine del turismo, degli aerei e dell’allevamento. Ciò impone di discuterne un po’, prima...
Sulla stessa linea anche l’ex presidente di Ansaldo nucleare Umberto Minopoli sul Foglio:
Che fare? Anzitutto il Green new deal dovrebbe liberarsi dal catastrofismo delle "date". Avere costretto la "transizione energetica" entro la gabbia del 2050, presunta data ultimativa per la "sopravvivenza" del pianeta e del dimezzamento del contributo delle fonti fossili (gas e petrolio) entro i prossimi 10 anni, è irrealistico e penalizzante per la crescita. Gli obiettivi antiemissivi di CO2 saranno, con questa tempistica, tutti mancati. L'unica strada virtuosa sarebbe una transizione soft alla decarbonizzazione, senza l'ansia e la ghigliottina delle date. (...) Le politiche climatiche si dimostreranno una bolla di decrescita se non fanno un efficace bagno di realismo e sostenibilità economica e sociale.
Purtroppo, a detta di gran parte degli scienziati, ci manca il tempo per la transizione “soft” auspicata da Minopoli. Ma quanto sia difficile parlare ai cittadini europei di una transizione “hard” risulta anche da questo episodio raccontato da Federico Fubini, sempre sul Corriere in un articolo dal titolo “Le verità spiacevoli per la Ue” in cui parla tra l’altro della cosiddetta “gaffe di Josep Borrell”:
Ha detto giorni fa l’Alto rappresentante della politica estera di Bruxelles, ricordando i limiti dell’evangelizzazione ambientalista dell’Europa nel mondo: «mi piacerebbe sapere se i giovani che manifestano nelle strade di Berlino, chiedendo misure contro il cambio climatico, sono coscienti dei costi. Se capiscono che dovranno ridurre il loro tenore di vita per compensare i minatori di carbone polacchi che resteranno disoccupati». Borrell ha fatto capire che l’Europa ha scelte dure da affrontare, se vuole il ruolo guida nel mondo che oggi reclama. Ha detto che la politica e la potenza non sono mai gratis. Apriti cielo: la Commissione europea si è ufficialmente dissociata e lo spagnolo ha dovuto scusarsi per aver parlato di quella che chiama la «sindrome Greta»; aveva osato dire una verità spiacevole in un’Europa abituata a vivere protetta. Ma un sistema che non sopporta la verità è un sistema politico debole. E l’Europa, oggi, non se lo può permettere. [Continua a leggere]
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