L’umanità non morirà di fame, se saprà distribuire il cibo che è in grado di produrre, ma questo non autorizza un falso ottimismo. Dobbiamo fare scelte difficili, impossibili senza condivisione. Verso nuove forme di democrazia?
di Donato Speroni
Unpredictability is the new normal. There is no getting away from it.
La pubblicazione dell’Economist sull’anno che verrà è un appuntamento d’autunno tanto puntuale quanto i libri di Bruno Vespa. Il responsabile di “The world in 2023”, Tom Standage, ci dice che l’imprevedibilità è la nuova normalità e che a questa situazione non possiamo sfuggire.
Guardando indietro, la pandemia ha segnato la fine di un periodo di relativa stabilità e prevedibilità nella geopolitica e nell’economia. Il mondo di oggi è molto più instabile, scosso dalle rivalità tra le grandi potenze, dalle conseguenze della pandemia, dagli sconvolgimenti economici, dai fenomeni metereologici estremi e dai rapidi cambiamenti sociali e tecnologici.
L’Economist presenta comunque le linee di tendenza da seguire con attenzione nel corso del 2023, senza particolari sorprese: l’Ucraina, la recessione, la polarizzazione politica negli Usa e così via. Ma è certamente vero che questo momento di grande incertezza stimola a riflettere su come affrontare il futuro. Alcune linee di tendenza le conosciamo: per esempio, che l’umanità ha passato la boa degli otto miliardi e che il 90% del miliardo che si aggiungerà nei prossimi 15 anni nascerà nei Paesi più poveri; che quanto stiamo facendo per combattere il cambiamento climatico non è sufficiente e che senza ulteriori interventi o miracoli tecnologici l’aumento di temperatura a fine secolo potrebbe avvicinarsi ai tre gradi; che negli ultimi cinquant’anni abbiamo perso due terzi della fauna selvatica e che continuando di questo passo la biosfera sarà terribilmente impoverita.
Anche se la Cop 27 sul clima di Sharm el-sheikh si concluderà probabilmente con scarsi progressi, l’evento ha fornito l’occasione per la pubblicazione di numerosi studi che hanno fatto un quadro drammatico del degrado del Pianeta e della incapacità politica di affrontarne i problemi.
Come ci si deve attrezzare per affrontare tutto questo? Le opinioni divergono. Per esempio, ci sono ottimi giornalisti come Federico Rampini, che prendono spunto dal superamento degli otto miliardi per condannare il catastrofismo: in passato, da Thomas Malthus in poi, si pensava che l’aumento della popolazione avrebbe provocato una drammatica penuria di cibo. Oggi invece sappiamo che siamo in grado di alimentare abbondantemente anche undici o dodici miliardi di persone. Il problema non è di quantità, ma semmai di meccanismi di mercato e di logistica, di povertà e di cattiva distribuzione.
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