Abbiamo un problema con l’assunzione di nuovi giornalisti. Abbiamo bisogno di nuove forze, dentro la redazione, giornalisti tra i 25 e i 35 anni. Ma questi, più sono giovani, più arrivano con una forma mentis modellata sui social network e dunque hanno un approccio aggressivo ed estremo al racconto delle notizie. A noi servono i giovani perché interagiscono meglio con l’informazione digitale, ma bisogna assolutamente spiegargli come si fa il giornale: un giornale non è un litigio, mentre i social network purtroppo tendono al confronto tra opinioni estreme. Dobbiamo trovare un metodo per far interagire i giovani giornalisti con la vecchia professione.
In un podcast su Rai Radio 1, segnalato anche da Futuranetwork, il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, interrogato da Giancarlo Loquenzi sul futuro del giornalismo, racconta di questa preoccupazione, a lui manifestata dal direttore di un importante settimanale francese.
The Economist, nell’inchiesta di copertina di questa settimana (“The threat from the illiberal left”) affronta il problema da un altro punto di vista: anche a sinistra ha preso forza, negli Stati Uniti ma non solo, una componente che rifiuta il metodo liberal, perché lo ritiene uno strumento di oppressione delle minoranze. Si noti che per il settimanale inglese, il termine liberalism va ben al di là del concetto di libero mercato; anzi, in molti casi, l’Economist si è anche mostrato favorevole a regole più stringenti e a un maggior intervento pubblico, per esempio sostenendo da tempo la necessità di una carbon tax per combattere le emissioni climalteranti. Liberalism indica invece un modo di far politica che il giornale sostiene fin dalla sua nascita nel 1843: un metodo elaborazione delle scelte collettive basato sul dialogo e sul diritto al free speech, la libertà di parola accordata a tutti. Invece i progressive, così il giornale definisce la sinistra “illiberale”, considerano il metodo del dialogo un trucco che favorisce sempre le elite e accentua lo svantaggio delle minoranze. Meglio far tacere chi non è d’accordo con loro. È quanto è avvenuto al New York Times, dove la pubblicazione di un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton ha provocato la rivolta di mezza redazione, (i cosiddetti “woke”, termine che definisce le persone particolarmente sensibili sui temi della giustizia sociale e della difesa delle minoranze) e un terremoto nelle gerarchie redazionali. Si chiede ancora l’Economist:
Se il liberalismo classico è tanto migliore delle sue alternative, come mai è così in difficoltà in tutto il mondo? Una ragione è che i populisti (di destra, ndr) e i progressisti (gli illiberali di sinistra, ndr) si autoalimentano in modo patologico. L’odio che gli appartenenti a ciascuno di questi campi nutre per l’avversario infiamma i supporter a beneficio di entrambi. Qualsiasi critica agli eccessi della propria tribù è vissuta come un un tradimento. In queste condizioni, il dibattito libero soffoca per mancanza di ossigeno. Basta guardare a quello che è successo negli anni scorsi in Gran Bretagna, dove la politica si è consumata sui litigi fra i conservatori duri e puri pro Brexit e il partito laburista di Jeremy Corbyn.