Draghi è un timoniere sicuro e molte priorità da lui indicate nel recente passato coincidono con quelle dell’ASviS. L’avvento del suo governo non deve però significare la fine della politica.
di Donato Speroni
Consentitemi di cominciare con un ricordo personale. Era il settembre del 1992, nel pieno di Tangentopoli. Il governo presieduto da Giuliano Amato aveva appena varato una serie di provvedimenti che, in vista della futura privatizzazione, smantellavano il sistema delle Partecipazioni statali e delle altre attività imprenditoriali pubbliche, trasformando gli enti di gestione in società per azioni e concentrandone il controllo nel ministero del Tesoro. Si era creata così una situazione senza precedenti, perché quello che in passato era l’immenso potere dei “boiardi” che comandavano un insieme comprendente Eni, Iri, ma anche Enel, Ferrovie dello Stato, Banca nazionale del lavoro, si concentrò per un certo periodo su un unico soggetto, il Tesoro, che aveva la responsabilità di fare le nomine, approvare i bilanci, valutare gli investimenti, in una situazione di totale assenza dei politici. Come mi raccontò all’epoca l’amministratore delegato dell’Eni Franco Bernabé, gli uomini dei partiti, sentendosi sotto scacco da parte del pool di Mani pulite, non osavano più fare una telefonata neppure per raccomandare l’assunzione di un usciere.
All’epoca il ministro del Tesoro era Piero Barucci, ma di fatto quel potere era gestito dal direttore generale, il giovane Mario Draghi. Sul Corriere della Sera scrissi un articolo che segnalava questa situazione.
Il capo del più grande conglomerato industriale e finanziario d’Europa vive a Roma e lavora in ufficio della Repubblica italiana. È un economista di 45 anni, senza alcuna esperienza di gestione. Dedica a questo lavoro non più di un’ora al giorno, non perché sia uno sfaticato, ma perché ha tanti altri impegni ancora più importanti. E suoi collaboratori si contano sulle dita di una mano. Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, nel tempo lasciato libero dalla difesa della lira e dal controllo dei conti pubblici amministra una holding che fattura quasi 200mila miliardi di lire, occupa 850mila persone e intermedia quasi 1 milione di miliardi (di lire, ndr) di mezzi finanziari. Una holding nata dal decreto legge varato l’11 luglio e definitivamente approvato il 7 agosto che ha trasformato in società per azioni i maggiori enti economici italiani affidandone Il controllo al ministero del Tesoro.
Draghi lesse l’articolo, si assicurò attraverso un comune amico che non si trattava di enemy action ma di una iniziativa dettata solo dal dovere di cronaca, e mi invitò al Tesoro. Fu gentilissimo, parlammo della situazione della lira (sotto attacco in quell’estate) e mi accompagnò a vedere il sancta sanctorum di via Venti Settembre, il Gran Libro del Debito Pubblico, un volumone annotato a mano dove, come dice la Treccani
si iscrivono per ogni prestito contratto dallo Stato gli estremi dei provvedimenti di emissione e i dati qualitativi e quantitativi di ciascun titolo.
All’epoca il rapporto debito/Pil viaggiava attorno al 115%, un rapporto che prima della crisi del 2008 si riuscì ad abbassare sotto il 104%, ma che oggi sfiora il 160%.
Di quell’incontro serbo il ricordo di una persona calma e gentile, sicura delle sue competenze e per nulla spaventata delle sue grandissime responsabilità. Dal quel momento sono passati 28 anni e penso che nessuno oggi meglio di Mario Draghi possa guidare l’Italia attraverso le tre crisi, sanitaria, economica e sociale, menzionate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
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