IL COLLASSO DEL SUDAN

16.12.2025 09:16

Città della Spezia 14 dicembre 2025

di Giorgio Pagano

 

 

La nostra attenzione è puntata quasi esclusivamente sulle guerre in Ucraina e a Gaza. Ma, nel frattempo, guerre e crisi umanitarie di proporzioni gigantesche e spaventose continuano a consumarsi in Africa, nell’indifferenza generale. Oggi scriverò della guerra in Sudan, una delle più gravi crisi umanitarie della storia.

Alla sua origine c’è il terribile conflitto scoppiato in quel Paese il 15 aprile 2023 tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e il gruppo paramilitare delle Forze di Supporto Rapido (RSF). Da quella data innumerevoli civili sono stati uccisi – c’è chi dice almeno 150 mila – e centinaia di migliaia di famiglie sono state costrette alla fuga, e ora sopravvivono in un disperato bisogno di protezione e di assistenza. 24,6 milioni di persone – il 50% della popolazione – sono in stato di totale bisogno medico e umanitario. Più di 10,7 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case: la maggior parte sono bambini, donne, anziani vulnerabili, persone con disabilità e con patologie mediche preesistenti. Oltre 8 milioni di sfollati sono interni al Sudan, mentre più di 3 milioni sono fuggiti verso i Paesi limitrofi, tra cui 600.000 rifugiati solo in Ciad nell’ultimo anno. È la più grande crisi di sfollamento a livello mondiale, con milioni di persone costrette a vivere in campi privi di assistenza sanitaria e umanitaria.

La stagione delle piogge ha aggravato una situazione già drammatica, favorendo la diffusione di colera e malaria. Oltre una dozzina di regioni sono sull’orlo della carestia, perché in gran parte tagliate fuori dagli aiuti alimentari.

La violenza indiscriminata è in aumento, compresa quella sessuale, così i casi di bambini scomparsi e separati dalle famiglie.

La guerra ha bloccato ogni attività. Non c'è più energia, l'unico oleodotto del paese è stato sabotato, le centrali elettriche sono tutte fuori uso. Il commercio è anch'esso sospeso e la gente non ha di che sfamarsi.

“GUARDATE QUESTO GENOCIDIO”

La situazione si è ulteriormente aggravata negli ultimi mesi con la battaglia per conquistare El-Fasher: la città era un obiettivo chiave per le RSF, l’ultima roccaforte in Darfur detenuta dall’esercito sudanese. Dopo aver tenuto la città sotto assedio per oltre 500 giorni, ad agosto le RSF si sono mosse per bloccare la popolazione civile, pianificando la strage: alla fine dell’estate hanno iniziato a costruire un’enorme berma (una barriera di sabbia rialzata) attorno al perimetro di El-Fasher, sigillando le vie di accesso e bloccando gli aiuti. All’inizio di ottobre l’anello circondava completamente la città: “Guardate tutto questo lavoro. Guardate questo genocidio” esulta un combattente delle RSF in un video diffuso sui social. Migliaia di persone sono intrappolate nella città, almeno 250.000. Le poche migliaia che sono riuscite a fuggire raccontano di una strage di civili fatta di massacri, torture e violenze. A El Fasher, dicono, “eravamo ridotti a mangiare mangime per animali”.

Chi è riuscito a fuggire è sfollato nella città di Tawila. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha dichiarato che il 98% delle famiglie di Tawila non dispone di materiali per dormire come coperte, materassi e zanzariere, che l’86% degli sfollati ha un consumo alimentare inadeguato e che il 30% dei bambini sotto i cinque anni è magro o non cresce bene.

 

LE CAUSE

Ma quali sono le cause di questa tragedia? Vediamole in estrema sintesi, con l’aiuto di Mario Giro, della Comunità di Sant’Egidio.

Nel 2019, dopo decenni di regime islamo-militare, in Sudan era scoppiata la rivolta pacifica della società civile, che era riuscita a far cadere l'autoritario leader Omar al Bechir. Fu un esempio per tutta l'Africa e per il mondo arabo: giovani per strada a chiedere e ottenere democrazia e diritti malgrado la feroce repressione. Davanti alle manifestazioni l'esercito si era diviso e le RSF – dopo essere state inizialmente utilizzate per reprimere, causando molte vittime – avevano a un certo punto deciso che era loro interesse sostenere la rivolta.

Da questa fase turbolenta nacque una transizione, con la nomina di un primo ministro civile preso a prestito dalle istituzioni finanziarie internazionali, Abdallah Hamdock, sostenuto dall'Occidente. Hamdock iniziò subito un difficile negoziato con le SAF per giungere a un progressivo cambio di regime. Si trattò di una fase complessa ma piena di speranze: per la prima volta il Sudan era alla ricerca di una via democratica. I militari volevano però mantenere una parte del controllo, soprattutto sull'economia del Paese. Le RSF erano d’accordo, purché fosse riconosciuto il loro status autonomo, non volendo rinunciare ai loro lucrosi traffici commerciali. La società civile, e i partiti che la sostenevano, insistevano invece nel chiedere ai militari l'abbandono della conduzione dello Stato.

La tensione aumentò fino alla rottura della transizione, con la cacciata di Hamdock e la ripresa del controllo totale da parte dell'esercito e dei suoi alleati RSF. Ma nell'aprile del 2023 qualcosa si ruppe tra i due complici. La richiesta da parte delle SAF alle RSF di sciogliersi per essere inglobate dentro la struttura delle forze armate scatenò la reazione violenta delle milizie, che non intendevano rinunciare alle loro attività commerciali parallele a quelle ufficiali. Per questo motivo la guerra in Sudan è chiamata "marketing war": una guerra per le risorse provenienti dal commercio. Da qui la guerra civile e il caos.

 

QUALCOSA SI PUO’, SI DEVE FARE

Ma qualcosa si può, si deve fare.

C’è ancora un Sudan su cui fare affidamento: la società civile pacifica e senza armi. I resti delle forze politiche e sociali eredi del movimento del 2019 si ritrovano nel movimento Taqaddum e in altri spezzoni alternativi, in genere riparati all'estero. Sul terreno, in mezzo a mille ostacoli, operano i comitati popolari spontanei che si auto organizzano per salvare vite offrendo cibo e medicinali.

C’è una comunità internazionale che, anche se malridotta, deve premere per negoziati tra le parti, anziché schierarsi a favore dell’uno o dell’altro contendente, come fanno purtroppo molti Paesi per interessi economici e politici.

C’è innanzitutto da donare, per supportare le organizzazione umanitarie e le agenzie dell'ONU: Medici senza frontiere, Emergency, le Suore salesiane, i Missionari comboniani, la Comunità di Sant’Egidio, l’UNHCR dell’ONU. Il portavoce delle Nazioni Unite Stéphane Dujarric ha sottolineato il successo degli aiuti umanitari continui in alcune aree. Ma servono molte più risorse. Il Sudan non può essere abbandonato al suo destino.

La politica e i media devono mettere il radar anche sul Sudan, e sui tanti altri conflitti in corso in Africa. Oggi la politica e i media inducono i cittadini a schierarsi, pro o contro. In Sudan e nei conflitti africani, invece, la linea tra vittime e carnefici è sfumata, le dinamiche troppo complesse per rientrare in una cornice semplice di “buoni” e “cattivi”. Ma noi dobbiamo “restare umani” e capire che comunque i “buoni” ci sono sempre: sono i civili senza armi, i bambini, le donne, le vittime. Dobbiamo dare voce a chi non ha voce. E fare ogni sforzo per aiutare chi soffre.

 

 

 

Giorgio Pagano

 

 

Post scriptum

Le fotografie di oggi sono state scattate alla mostra “African Metropolis”, tenutasi al Maxxi di Roma nel 2018.

La foto in alto è dell’opera “Case cadenti” dell’artista del Camerun Pascale Marthine Tayou. Le case cadenti sono il simbolo della specie umana, del mondo che sta collassando.

La foto in basso è dell’opera “Wo shi feizhou/Je suis african”, dell’artista della Costa d’Avorio Francois-Xavier Gbré.

 

 

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