LA TREGUA, LA GIOIA, IL DOLORE

20.10.2025 10:21

Palestina, il cimitero del campo profughi di Jenin (2005);foto Giorgio Pagano

 

 

E’ una tregua, non ancora la pace. Da Gaza e dalla Cisgiordania mi scrivono gli amici palestinesi: c’è gioia e c’è dolore. Chi è sopravvissuto pensa ai suoi morti, genitori o figli o amori perduti. Chi era stato costretto a fuggire da Gaza City cerca di tornare: “Ritroverò la mia casa?”. Va un familiare, in avanscoperta. Lo sappiamo: la casa non è solo muri, è fatta di ricordi, di storie delle persone. L’esercito israeliano ha distrutto quasi tutto, lasciando scheletri e rovine. Non ci sono quasi più scuole, università, ospedali, moschee, giardini, campi coltivati, alberi, animali… Si cucina con la legna delle finestre. Un gazawi con cui ho lavorato in un progetto di cooperazione – l’ultimo, sull’acqua, riguardava anche Gaza: ma Israele non mi consentiva di andare, rimanevo a Ramallah o a Betlemme e facevamo incontri “a distanza” – mi ha scritto: “Cosa succederà ai bambini sopravvissuti, dopo questi due anni? Come starà la gente, debilitata, con il cuore spezzato? Ma sappiamo come risorgere”. Ne sono certo: i palestinesi sono visceralmente attaccati alla propria terra, con la loro straordinaria pazienza ricominceranno daccapo, ricostruiranno. Vorrebbero subito i mezzi che non ci sono, per rimuovere le macerie. Ma la ricostruzione tocca anche le anime: ricostruire anche se stessi, tornare “normali”. E’ difficile tornare a vivere senza ciò con cui e per cui si viveva prima del genocidio. La guerra è finita, ma per tanti sopravvive ancora dentro i cuori, e chissà se mai finirà.

Da Haifa mi scrivono gli israeliani che sono contro Netanyahu. Anche in loro convivono gioia e dolore. Gioia per la fine del genocidio e per la liberazione degli ostaggi. Dolore per quanto si sta facendo nel nome degli ebrei. Sanno che sempre più dovrà svilupparsi il conflitto politico dentro Israele, e temono di essere ancora una volta sopraffatti. “Non vogliamo la teocrazia attualmente dominante, siamo per un altro ebraismo”, “Vogliamo la sicurezza di Israele, ma la sicurezza si fa insieme al vicino, non contro il vicino”: sono voci importanti.

Tutti gli amici, palestinesi e israeliani, non si fidano di Netanyahu, tanti nemmeno di Trump, ma tutti sperano.

Perché il genocidio non è stato ultimato, e il popolo palestinese continua ad esistere come popolo.

Ma la fine del genocidio non crea ancora le condizioni per la pace: il ritiro di Israele da Gaza e dalla Cisgiordania colonizzata, l’autodeterminazione dei palestinesi, la creazione dello Stato di Palestina. L’impostazione colonialista permane.

Gli Stati Uniti devono dire a Israele che la complicità è davvero finita. Trump è stato complice del genocidio, così Biden, perché gli USA sono stati il principale fornitore di armamenti e sistemi militari a Israele, come ha spiegato Giorgio Beretta su “Altreconomia”. Ma Trump ha capito quello che stava accadendo – l’isolamento di Israele nel mondo – riuscendo a ottenere la tregua: il punto su cui Biden, un anno fa, fallì.

Netanyahu, con gli ostaggi liberati, forse avrà più difficoltà a scatenare ancora l’inferno. Prima o poi – speriamo prima che poi – sarà costretto a lasciare l’incarico. Israele dovrà fare al suo interno quella discussione radicale invocata dai miei amici di Haifa. Ma perché vada nella direzione giusta bisogna che il mondo continui a isolare questo Israele.

La partita va riaperta in Israele ma anche in Palestina. Hamas porta sulle spalle la strage del 7 ottobre, ma disarmerà solo se si creerà lo Stato di Palestina. Altrimenti, si chiami Hamas o in altro modo, dopo quello che è accaduto non è realistico pensare che non ci sia un’opposizione militare all’occupazione. Certamente il problema della credibilità della classe dirigente palestinese – aperto da molti anni – si pone più che mai. E’ per questo che Israele non vuole liberare Marwan Barghouti, la personalità politica palestinese più carismatica.

La partita si gioca in tutto il mondo: ecco perché la resistenza degli italiani, degli europei, di tutta la comunità internazionale deve continuare.

In realtà ha vinto la Flotilla, non Trump. Sono coloro che hanno messo a rischio la loro esistenza nel nome di una causa che meritano il premio Nobel. La mobilitazione in tutto il mondo ha inciso. Ha vinto chi ha dato il contributo “rumoroso” delle piazze, non chi si imbroda per il contributo “silenzioso” del governo italiano, così silenzioso che nessuno se ne è accorto. Non è vero che lottare e sperare non serve. Anche se il mondo sembra che vada al contrario, e che contino solo le armi e i soldi.

Il rigetto da parte dei giovani italiani del genocidio e dell’ipocrisia dei governi, alla base della rivolta in atto, deve avere una continuità di iniziativa. L’esperienza insegna che un movimento “morale” non dura

all’infinito senza un progetto politico e una coalizione, e quindi lo sforzo per mettere in comune quanto possibile: nella società civile ma anche nelle forze politiche, pur se mal ridotte. Lo dice uno come me, che è fuori dalle forze politiche da vent’anni. Non bisogna farsi illusioni, ma nemmeno rinunciare a coinvolgerle. Negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, il movimento studentesco di opposizione pacifica alla guerra in Vietnam cercò e trovò l’accordo con Bob Kennedy, probabile futuro presidente degli Stati Uniti, che per questo fu ucciso. Oggi è molto più difficile di allora, ma la sfida va accolta. In generale bisogna interessarsi delle ragioni dell’altro, anche se l’epoca dei social spinge a non essere sociali, a non dialogare e a non conversare ma solo a sbeffeggiare o a odiare chi la pensa diversamente.

In questo quadro inedito, ancora di sofferenze ma anche di nuove lotte e speranze, La Spezia dovrebbe riprendere il grande progetto colpevolmente interrotto: il gemellaggio trilaterale con Haifa e Jenin, il ruolo di “porta di pace” nel Mediterraneo, di città non delle fiere delle armi ma del dialogo tra i popoli. Scrivo dopo aver visto uno spettacolo di teatro e musica di grande interesse, “Quanta strada nei suoi sandali” di Roberto Lamma, la storia del sindaco di Firenze Giorgio La Pira. Oggi come allora il motto di La Pira “unire le città per unire le nazioni” indica la strada a chi ha a cuore la pace.

 

Post scriptum

 

Ho scattato la foto in alto nel cimitero del campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, nel 2005. Una madre piangeva la morte dei suoi due figli durante la seconda Intifada. Poi mi raccontò la storia delle loro vite.

Le foto in basso mi sono state inviate da Gerusalemme Est, la parte araba, il 7 aprile 2025, giorno dello sciopero generale in Cisgiordania e a Gerusalemme Est per Gaza: per la prima volta nella storia il suq, il mercato più vivace e affollato del mondo, appare completamente deserto.

 

Giorgio Pagano

 

 

 

Gerusalemme Est, il suq deserto durante lo sciopero generale per Gaza
(foto inviate a Giorgio Pagano il 7 aprile 2025)

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