NON IN NOSTRO NOME

13.10.2025 09:20

Città della Spezia 5 ottobre 2025 

 

Venerdì ero a Pisa: alla manifestazione c’erano 20 mila persone. Non si vedevano da molti anni, mi hanno spiegato. Come a Spezia, come in tutta Italia. Ieri nuovamente a Roma. Dalla Palestina mi arrivano molti messaggi: “Grazie Italia”.

Un sommovimento di questa natura va compreso. A Pisa, in una iniziativa tenutasi al pomeriggio, ho detto:

 

“Per ogni generazione viene il momento della rivolta morale, della presa di coscienza della necessità di combattere le ingiustizie. Non è vero che la storia è finita e che non esistono alternative”.

 

Prova a spiegare questa “rivolta morale” la lettera che abbiamo inviato ieri a Giorgia Meloni come Libero Comitato NNN (Non in Nostro Nome), fondato qualche settimana fa da Franco Cardini – intellettuale proveniente dalla cultura della destra e uomo libero –, a cui ho aderito. Questo il testo:

 

“J’accuse Gentile Presidente del Consiglio,

abbiamo letto con grande stupore che ha bollato la spedizione della Global Sumud Flotilla come una ‘provocazione’. Davvero? E cosa avrebbe dovuto essere, dopo due anni di distruzioni sistematiche, di bombardamenti indiscriminati, di morte quotidiana inflitta a un popolo intrappolato in una prigione a cielo aperto? Parlare di ‘provocazione’ rivela tutto il suo fastidio non per la strage – non mettiamo in dubbio il suo scoramento al riguardo –, ma per chi osa ricordare chi ne sia responsabile. Non la scandalizzano, forse, i bambini sepolti vivi sotto le macerie, gli ospedali rasi al suolo, la fame e la sete utilizzate come arma di guerra? Crediamo di sì. Eppure, ciò che la turba è che qualcuno, con poche barche cariche di viveri e medicinali, osi disturbare i massacratori. Lei chiama ‘provocazione’ quel ‘grido di libertà’ che dice di difendere. Vorremmo dirlo con chiarezza: provocazione è il bombardamento sistematico dei civili; provocazione è ridurre alla fame due milioni di persone; provocazione è trasformare Gaza in un cimitero a cielo aperto; provocazione è esercitare terrorismo di Stato chiamandolo legittima difesa; provocazione è colpire indiscriminatamente donne e bambini e poi pretendere rispetto; provocazione è assaltare navi civili in acque internazionali, compiendo atti di pirateria che calpestano il diritto del mare e umiliano la coscienza del mondo. Diciamo provocazione ma intendiamo crimine, crimine orrendo.

Sa come mai la gente scende in piazza? Perché è schifata. Profondamente schifata. Di fronte a un massacro in diretta. Di fronte a una indicibile violenza fisica e verbale. Di fronte a una prepotenza senza limiti. Di fronte all’inerzia e, anzi, alla connivenza dei governi: il suo, quello europeo, quello statunitense. Tutti piegati, tutti pronti a calare le brache. Avete sacrificato il diritto alla convenienza, la giustizia all’alleanza, la vita umana alla paura di contraddire. E mentre voi giocate al piccolo realismo politico, la democrazia si svuota, la parola ‘pace’ diventa retorica, la memoria si trasforma in scherno. È questo che disgusta: non solo la violenza di Israele; a schifare è la resa morale del vostro ‘Occidente’ – non del nostro –, la complicità lucida di chi potrebbe fermare il massacro ma sceglie di coprirlo. La gente scende in piazza per gridare la vostra inadeguatezza.

Gentile Presidente, dovrebbe avere il coraggio di dire che non tutte le vite valgono allo stesso modo: perché questo è il messaggio che il suo governo trasmette, questa è la verità che s’impone dietro le vostre parole. E a poco vale il tentativo di trasformare la mobilitazione in dissenso politico. La mobilitazione è dissenso politico: lo è come non lo si vedeva da tempo. Ammiriamo l’attivazione di un canale umanitario, l’accoglienza di bambini malati e di studenti nelle nostre Università. Tuttavia, vi sfugge un particolare: quei bambini, quegli studenti sono le prime vittime di un governo che ha le mani sporche di sangue. Scambiare l’attivazione di un corridoio umanitario per una vittoria diplomatica è come confondere la carità con la giustizia: un gesto doveroso spacciato per grandezza. Ma nessun corridoio, per quanto necessario, potrà cancellare l’ingiustizia di un governo che fa della morte la propria lingua politica. E a poco vale far ricadere la colpa sui terroristi di Hamas. A bombardare i civili è, da 24 mesi, un governo che voi dite amico.

E allora sì, cara Presidente, la Flotilla è una provocazione. Ma non contro la pace, che ci auguriamo arrivi presto, e che sia giusta: che riconosca, cioè, ai palestinesi il proprio diritto alla terra. Una pace che nessuna azione umanitaria può realmente incrinare, se davvero la si vuole. È una provocazione contro la vostra ipocrisia, contro la complicità di chi resta alla finestra, contro la vigliaccheria di governi che non sanno difendere la vita, contro l’incapacità di guardare negli occhi i morti di Gaza, contro la scelta di salvaguardare alleanze e interessi anziché salvare corpi. È una provocazione che ci riguarda tutti, perché mostra lo specchio di ciò che siamo diventati: un’umanità che si abitua all’orrore, che accetta la selezione delle vite, che chiama pace il silenzio dei cimiteri. È la gerarchia del dolore che con il vostro silenzio accettate: la selezione, la divisione dei morti in due categorie, l’umiliazione della pietà. Ogni volta che tacete, confermate al mondo che la giustizia non è più universale ma di parte, che i diritti non appartengono a tutti ma solo a chi ha la forza di imporli. Noi ci credevamo, nell’articolo 2 della Costituzione. Speriamo di crederci ancora. Gentile Presidente, tutto questo non è accettabile; e lei lo sa bene. Ascolti chi manifesta. Non alimenti la tensione con messaggi sprezzanti, elitari. Non parli solo a una parte. Se ci riesce, dato che ne ha la velleità, ci renda ancora orgogliosi di chiamarci italiani. Ma questa volta per davvero. Per ora, a farlo sono le piazze”.

 

Molti, moltissimi, restano umani: è un movimento plurale, con tante anime.

Lo sciopero è stato indetto da sindacati diversi tra loro: la CGIL, l’USB, i Cobas. Che però hanno trovato un’intesa.

L’acampada – l’abbiamo vista a Spezia – è una forma di lotta diversa da quelle “tradizionali”. Ha certamente a che fare con i più recenti movimenti transfemministi e ambientalisti, ma ricorda anche le assemblee studentesche del Sessantotto e le tende in piazza degli operai di allora: luoghi di conflitto ma anche di festa dello stare insieme. Le rivolte traggono un po’ della loro poesia dal passato. Ci sono dunque forme organizzative e comunicative molto diverse tra loro: ma possono convivere.

L’accordo, nel movimento, non è su tutto. Io, per esempio, nei cortei non riesco a scandire lo slogan “Palestina libera dal fiume fino al mare”. Ho vissuto a lungo in Palestina. È, insieme a Sao Tomè e Principe, la mia seconda terra, e mi manca in modo viscerale. I miei amici archeologi mi hanno spiegato la presenza, nel sottosuolo, di più memorie, metro per metro. Nella città vecchia di Gerusalemme più che altrove, ma dappertutto. Chiunque scavi, si trova di fronte al problema di Dio: memorie ebree, musulmane, cristiane. Il governo israeliano cerca di conservare le memorie ebree e di distruggere le altre, nel nome del “grande Israele dal fiume al mare”, la cui cartina è addirittura cucita sulle uniformi dell’esercito genocida. Dobbiamo impedirgli la realizzazione di questo disegno, ma anche accettare la compresenza di più memorie. Il che significa “due popoli, due Stati”. È vero che il sionismo si reggeva su un drammatico errore: l’idea che la Terrasanta fosse “una terra senza gente per una gente senza terra”. La gente palestinese invece c’era, eccome. Ma oggi la presenza ebrea è un dato da cui non si può più prescindere. Detto questo, la “rivolta morale” è scattata per la tragedia dell’occupazione, per la mancanza dello Stato palestinese. Il vero grande limite del “piano di pace” di Trump è soprattutto, e ancora, questo: la mancanza dello Stato palestinese. La Palestina non può diventare un protettorato occidentale. Non in Nostro Nome. Contro tutto ciò il movimento è unito, e la lotta continuerà.

A Spezia abbiamo inoltre un problema peculiare: la presenza di alcune industrie belliche, che occupano molti lavoratori. E’ una questione che proviene da una lunga storia: siamo una piazzaforte militare, ancor prima della costruzione dell’Arsenale. Su questo problema si è aperto in questi giorni un dibattito in città, che va proseguito e approfondito. Distinguendo sempre tra governanti del Paese, “padroni” delle fabbriche e lavoratori; e dialogando senza “complessi di superiorità” con i lavoratori. È comprensibile che essi siano portati a pensare innanzitutto al posto di lavoro. È vero anche che le avanguardie operaie delle nostre fabbriche, nei momenti “alti”, si sono sempre battute per diversificare e riconvertire l’industria bellica. Ma se non è semplice la costruzione della “coscienza di classe”, lo è ancor meno l’intersecarsi della “coscienza di classe” con la “coscienza pacifista e internazionalista”. Essa fu forte nella prima guerra mondiale e riemerse – non subito, ma dal luglio 1943 – nella seconda. La costruzione dell’identità della classe operaia spezzina è stata un processo tormentato, perché ha avuto a che fare sia con il disagio e la sofferenza provocati dal produrre armi per la guerra sia con il pensiero “innanzitutto al posto di lavoro”. Tentativi e progetti di diversificazione e riconversione ci furono sia dopo la prima guerra mondiale che dopo la

seconda, ma alla fine furono in entrambi i casi sconfitti. Così come ebbero breve vita quelli sviluppatisi dopo il Sessantotto. Ma alcuni progetti furono resi possibili, direi “obbligati”, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, grazie alla “distensione” dopo la Conferenza di Helsinki e allo scoppio della pace. L’Unione europea, che oggi ha deciso il Rearm Europe rinunciando alla diplomazia, allora varò il progetto Konver, e dirottò sulla riconversione ingenti risorse del Fondo Speciale Europeo. Grazie a entrambe le misure, che utilizzammo per molti anni, il processo di differenziazione dell’economia spezzina fu profondo. Lo spirito di Helsinki resta il simbolo di una pace possibile, a cui credere fino in fondo, e di un’altra economia possibile. Anche perché i dati smentiscono la favola del riarmo come motore dell’industria italiana: gli studiosi ci spiegano che molti soldi saranno utilizzati per comprare armi all’estero. Attenzione, dunque, a non tornare al drammatico errore della “monocultura” armiera. Ecco, credo che con questa impostazione il confronto con i lavoratori e i loro sindacati possa essere proficuo per tutti.

A questo punto sento l’obiezione: se esistesse l’Europa, se la sinistra europea e italiana fosse credibile… In entrambi i casi il problema principale è la credibilità. Ci voleva un esempio credibile, poche centinaia di uomini e di donne da ogni parte del mondo a bordo di 40 barche in mezzo al mare, per costruire il collante che mancava. Il problema è la coerenza. Troppe volte – a proposito della sinistra italiana – governo e opposizione non si distinguono con nettezza. Sulle armi a Israele, sul riarmo, sul bellicismo, sul turbocapitalismo liberista... La disaffezione al voto ha origine nella carenza di credibilità.

Un altro intellettuale libero, il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che fu uno dei protagonisti del Sessantotto e poi un dirigente nazionale del PCI e della CGIL fino al 1997, mi ha scritto ieri:

 

“Gli Stati Uniti accelerano la loro crisi economica e politica, la dedollarizzazione degli scambi sembra essere iniziata, le intese fra i BRICS crescono, ma pagano questa accelerazione con la distruzione del diritto internazionale, con l’ONU resa impotente e con un prezzo di sangue troppo alto. Resta una grande risposta popolare, in Italia e nel mondo che, se avrà una continuità, e finora la ha avuta, alla fine non potrà non dare qualche frutto”.

 

Post scriptum:

Ho scattato la foto in alto nel deserto di Giuda, nel 2018.

La foto nel corpo dell’articolo mi è stata inviata da Gaza l’8 settembre 2025. La scritta in inglese e in arabo dice: “700 giorni di guerra… una macchia che la storia non cancellerà mai… Gaza sanguina ancora”.

La foto in basso è stata scattata nell’ufficio del Comune di Betlemme in cui ho lavorato nel 2018-2020.

 

Giorgio Pagano

 

 

 

 

Gaza, 8 Settembre 2025

 

 

Palestina, deserto di Giuda (2018) (foto Giorgio Pagano)

 

 

Ufficio del Comune di Betlemme, composizione alla parete (2018) (foto
Giorgio Pagano)

 

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