In occasione dei suoi 75 anni e in un momento di crisi della cooperazione, l’Onu riflette e ci interroga sul suo futuro. Quattro scenari, ma uno solo auspicabile. Un segnale di speranza dalla politica italiana.
di Donato Speroni
“Estranei che esprimono giudizi sulla nostra salute”. In queste parole di Bolsonaro sull’Oms c’è quasi tutto della nostra epoca: il sovranismo, la diffidenza per ogni forma di autorevolezza scientifica (anche per questo l’ambiente è l’ultimo dei problemi in agenda) il progressivo disfarsi di quello che chiamerei l’associazionismo delle Nazioni, nelle forme che si erano date per rimediare alle catastrofi belliche del Novecento.
Le Nazioni Unite, l’Oms, le istituzioni monetarie, le autorità sovranazionali, l’Unione europea, tutto ciò che cerca (faticosamente) di inquadrare il caos dei popoli in qualcosa che assomiglia un minimo comune denominatore accettabile ovunque viene rifiutato dai nuovi duci nazionalisti come «intrusione di estranei». Reggono solo, per adesso, le alleanze militari, anche perché sostenute dall’immane business degli armamenti.
La riflessione di Michele Serra su La Repubblica tocca un tema cruciale. È possibile raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 senza una adeguata capacità di governo internazionale? Più volte in questi commenti abbiamo sottolineato l’importanza dell’Unione europea, sia per il suo ruolo nell’aiutare i Paesi membri (e soprattutto i più colpiti come l’Italia) a uscire dalla grave crisi provocata dalla pandemia, sia per le sue responsabilità nel contesto globale, su temi come il clima e la cooperazione internazionale. L’impegno della Commissione von der Leyen e i suoi programmi improntati all’Agenda 2030 ci fanno sperare che l’Europa si avvii a un futuro di maggiore coesione e di maggiore impegno per un futuro sostenibile.
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