Le responsabilità politiche dei naufragi nell'era degli accordi con la Libia.

14.11.2017 12:58
Negli ultimi mesi la diminuzione degli sbarchi dei migranti sulle coste italiane è stato in molti casi accolto da istituzioni e media come un “successo” della politica internazionale italiana. Un “successo” per chi pensava che bastasse sedersi al tavolo delle trattative con il premier libico Fayez Al Serraj per ostacolare e frenare il transito di persone in fuga da guerre civili e dittature militari o mosse dal desiderio di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Un “successo” che in realtà rivela una chiara dichiarazione di guerra all'umano, traducibile esclusivamente in termini di complicità criminale. Mentre l'Europa irrobustisce la sua fortezza e si compiace della diminuzione del transito dei migranti nel suo territorio, migliaia di uomini e donne vengono trattenuti nei lager libici – siano essi prigioni governative o centri gestiti da milizie ribelli e bande criminali – dove sono sottoposti a torture e lavori forzati, soggetti a ricattabilità economica attraverso l'estorsione di denaro in cambio di una promessa libertà di attraversamento del confine. Non mancano episodi come quello del 6 novembre: un naufragio, ma ancor più il paradigma di scelte politiche omicide e della collaborazione con qualunque forza governativa che possa essere utile a supportare il progetto europeo di repressione e sfinimento dei migranti.
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